Idee di viaggio

Bala Chaturdashi: dall’Himalaya alle Alpi, l’onestà di un gesto

Alberto Montemurro

Alberto Montemurro

Va bene un solo giorno all’anno, ma quella era la quarta volta in pochi secondi. Che mi urtavano e che non potevo lamentarmi in alcun modo, intendo. D’altronde, è perfettamente inutile protestare con dei cadaveri.
Il problema però non era tanto il fatto che ormai mi avessero circondato, e che quindi urti e scossoni fossero diventati continui e inevitabili. La pressione della massa di gente diretta verso di me, trasportando a braccia lettighe e rispettive salme, si confondeva con le persone già scese sull’ultimo gradino e impegnate a risalire la riva, così la risultante nulla delle forze di tutti quei fedeli mi inchiodava sempre allo stesso punto. Il problema, appunto, non era tanto la folla, quanto la cera sotto la suola delle scarpe, e il fatto di averle in bilico sull’ultimo gradino prima del Bagmati.

Il Bagmati sarebbe un fiume, ma in quel momento è una massa indistinta di polvere, riso, fiori, sudore, ossa bruciate, briciole di frittelle, peli di cane, cera, mozziconi di torce, acqua, petali di calendule, bucce di noccioline, bastoncini d’incenso, fango. Lì tra le acque del fiume, e assieme al sottoscritto se non mi fossi spostato in fretta, sarebbero finite le ceneri delle salme, e a mezzanotte, le candele, ciascuna fiammella una persona cara da affidare alle cure della strascicata corrente del fiume.
Una volta l’anno, al tempio di Pashupatinath a Kathmandu si celebra il Bala Chaturdashi.

Credits Alberto Montemurro
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È il 25 aprile 2015, le 08:11 ora italiana. Usain Bolt si allena per riconfermarsi ai Mondiali di atletica, il Barcellona di Messi, Suárez e Neymar sta per vincere tutto. In Italia Matteo Renzi è presidente del Consiglio, si sta preparando per la cerimonia di rito all’Altare della Patria.
In Nepal l’orologio segna le 12:57 quando i sismografi registrano una scossa di magnitudo 7,8 della scala Richter. È l’inizio di un terremoto che solleverà l’intera capitale di Kathmandu di un metro, uccidendo più di 8000 persone e distruggendo monumenti secolari, fra cui buona parte del patrimonio UNESCO nepalese. Pochi edifici storici della capitale sopravviveranno indenni alle scosse: fra questi c’è il tempio di Pashupatinath.
Situato fra le sponde del Bagmati e il parco di Bhandarkhal, il tempio dedicato al dio Shiva è il più importante edificio induista dell’intero Nepal. Brulica di visitatori in ogni momento dell’anno, ma il tredicesimo giorno di luna calante nel mese di Mangsir – l’equivalente di circa metà dicembre – folle straordinariamente massicce di fedeli stringono d’assedio il tempio per celebrare ila ricorrenza del Bala Chaturdashi e rendere omaggio ai propri cari defunti nell’ultimo anno.
Durante la notte i fedeli accendono candele per ricordare le proprie perdite, accompagnando la festa con inni, musica e canti, fra tazze di chai e petali di calendule. Il mattino successivo, il rituale inizia con un bagno nelle acque del Bagmati, prima di cominciare una specifica circuambulazione attorno al tempio, spargendo lungo il percorso i “sette” che formano il Satbeej: riso, grano, orzo, frumento, ceci, granturco, miglio, ciascuno dei quali ha un preciso significato. Partecipare al pellegrinaggio significa ripercorre gli antichi passi del dio e propiziare così il suo favore per le anime dei propri morti, contribuendo con l’offerta del Satbeej affinché trovino pace.

Credits Alberto Montemurro
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Il tredicesimo giorno di Mangsir del 2023 cadeva il 10 dicembre. Stavo camminando verso il tempio di Pashupatinath. Una volta lasciata Pashupati Road costeggiavo il parcheggio a sud del tempio, dove si affollavano centinaia di motorini, linee assiepate come i denti ferrosi di pettini fittissimi: scooter, bici, auto e vecchi risciò, al buio, erano ammucchiati in un’unica massa di ferraglia indistinguibile. Erano solo un assaggio di quello che mi attendeva sulle sponde del fiume. Accampate da chissà quante ore e determinate a resistere tutta la notte, folle di fedeli – tanto agguerriti quanto, inequivocabilmente, allegri – erano stipate fra tende, teli e bivacchi improvvisati. Interi nuclei familiari e gruppi di amici cantavano, conversando fitto fitto mentre si scambiavano golosità e stuzzichini di ogni genere: noci, anacardi, samosa, spiedini tandoori. Fra i sacchi a pelo e le coperte facevano capolino le foto dei propri cari defunti, mentre i fiori di calendula erano talmente tanti da ricoprire ogni cantuccio libero di un sottile tappeto arancione.
L’aria era fumo, sudore, odore di fritto e d’incenso.

Credits Alberto Montemurro
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Le tende ricoprivano tutto il terreno disponibile sulla sponda orientale del Bagmati, lasciando libera solo la parte subito a ridosso del tempio, dove si trova lo spazio destinato alle cremazioni. Avvengono ogni settimana, ma quella sera sarebbe stato diverso.
Mentre attraversavo il ponte in direzione opposta alle pire, notavo che fra le centinaia di teste non ce n’era una sola “bionda”: per tutta la notte presumibilmente non avrei incrociato lo sguardo di un altro occidentale, il che mi avrebbe reso subito un’attrazione.
Ad ogni tenda mi offrivano tè, cibo, cercavano di trattenermi in conversazioni, e di certo non mi tiravo indietro. Sarà stato per la macchina fotografica o per l’aspetto, ma sembrava che per il solo fatto di essere lì io avessi diritto a un trattamento speciale. C’era quasi da montarsi la testa.
Dopo essere riuscito a defilarmi dal cuore dell’accampamento, passavo ancora davanti alle pire, di nuovo accese.
Una volta consumate, le ultime ceneri venivano spazzate via dalle piattaforme: in quei momenti qualcuno ne scrutava speranzoso la superficie, in cerca di pezzi d’oro.
Vicino all’entrata del tempio, migliaia di calendule intrecciate a mo’ di festone formavano un’unica cortina di fiori e petali, tesa da sponda a sponda.

Credits Alberto Montemurro
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In quel punto, sugli ultimi gradini prima della superficie del Bagmati si concentravano la maggior parte delle spoliazioni delle salme: venivano gettate in acqua le calzature del defunto, per poi risalire i gradini della sponda del fiume e adagiarlo sulla piattaforma atta alla cremazione.
Era in quel punto che per qualche lunghissimo minuto sarei stato preso in mezzo, completamente bloccato dalla folla.
Lo spettacolo intermittente delle migliaia di candele, il fumo dei roghi, il frastuono di voci e musica: tutto questo sarebbe bastato a soddisfare le aspettative del visitatore più esigente. Ma era a mezzanotte che si sarebbe verificato lo spettacolo più incredibile.

In quel preciso istante, come un organismo unico, miriadi di fedeli sciamavano simultaneamente verso il fiume, ciascuno trasportando la propria preziosa fiammella. Le migliaia di candele venivano quindi adagiate sulla superficie dell’acqua, ciascuna dotata di una piccola imbarcazione che le permettesse di scorrere placida sulle acque del Bagmati. Era l’ultimo saluto alle anime dei defunti, e in quel momento, dopo un crescendo ininterrotto sin dalle prime ore della sera, un’euforia diversa sembrava attraversare ogni partecipante.
I ragazzi più giovani si avventuravano sul fiume, a fare lo slalom fra le candele in viaggio. Qualcuno dei più audaci si lanciava fra le file di calendule tese da sponda a sponda.
I canti si facevano più intensi, fra i flutti si lanciavano manciate di cereali, ricevendo in cambio scrosci d’acqua, o petali.
Alcuni fedeli si limitavano a qualche rapido risciacquo del volto, altri si immergevano fino alla vita. Qualcuno cadeva o si lasciava cadere in acqua.
Ovunque si percepiva una palpabile, inconfondibile eccitazione.

Chi vorrebbe darsi un tono tirerebbe in mezzo Durkheim e il manas, un bolognese griderebbe all’entusiasmo deciso di un’allegra balotta, qualcun altro più genericamente al bello di fare cagnara in gruppo.
Eppure è vero che le sensazioni collettive si amplificano reciprocamente, rimbalzano e ti tornano addosso come le risate fra i sedili di un cinema.
Di solito tanta frenesia religiosa mi respinge, si insinua sottopelle in un’inquietudine per cui mi affretto a bollare simili manifestazioni di devozione come fanatismo. Non è stato così, quella notte. Mi rendo conto di avventurarmi su una china pericolosa, verso la celebrazione di un diverso pronta a scadere in un’ennesima, facile romanticizzazione ostaggio di un esotismo spicciolo e stucchevole. Chiarisco.

Quella notte ci sono state decine di spoliazioni, le pire, le immagini delle perdite di ogni famiglia in ogni angolo, fotografie di defunti stampate e incorniciate per l’occasione. Insomma, c’era morte ovunque, quella notte. Eppure, per quanto mi guardassi attorno non vedevo una lacrima, non un singolo episodio di disperazione. Non c’era alcuno struggimento o commiserazione in quella devozione, alcuna sfumatura di tristezza nei canti.
Non che io mi sogni di condannare i sussulti di commozione in una manifestazione religiosa, non è a questo che mi riferisco. No, quello che mi colpiva era come nessuno sembrasse nemmeno accorgersi o curarsi di quanto gli accadesse attorno, né controllare avidamente che gli altri fedeli avessero ammirato e approvato la propria performance. Completamente insensibile alle movenze del gruppo, ognuno era spontaneamente concentrato solo su ciò che stava facendo.
Gli attori si accontentavano della purezza del gesto.
Che fosse accompagnare la candela sul fiume, accendere il gas sotto la teiera del chai, o spellarsi le mani sopra un tamburo, sembravano tutti contenti e giusti: come può esserlo solo chi non ha altri scopi se non portare la propria azione a compimento.
Assistere a roba del genere da spettatore-non-attore ha la capacità di lasciarti secco. O quantomeno ti costringe a stare immobile, con un’espressione tutt’altro che intelligente in faccia.

Così, mentre centinaia di candele increspavano il Bagmati di righe fiammeggianti e scorrevano rapide a pochi centimetri dalle mie sneakers, con una probabile espressione da stoccafisso mi ricordavo di quando recentemente avevo provato una sensazione simile. Con gli occhi fermi sulla mia capitale del mondo, frugavo svelto tra i ricordi.
Per un attimo torno indietro di qualche mese, e di un continente.

Credits Alberto Montemurro
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Era la prima settimana d’autunno e stavo guidando W., americana, giù per un sentiero abbastanza ripido e piuttosto frequentato. Il terreno era scivoloso quanto possono esserlo solo alcuni passi ombrosi e umidi nella Valle Aurina, ma pur avendo W. almeno il doppio della mia età, procedeva a passo deciso, un’andatura svelta e priva di incertezze.
Anche per quello ero rimasto interdetto quando si era fermata di colpo, almeno fino a quando non avevo notato cosa avesse catturato la sua attenzione: una piccola installazione in legno sul margine del percorso. Come se ne incontrano ovunque, su una montagna italiana. Solo, per quel crocifisso doveva esserci una qualche devozione particolare, dato che era stipato in ogni angolo di fotografie, rosari, biglietti. Erano giorni che attraversavamo l’arco alpino, fra le tante conversazioni alle spalle a volte gli argomenti si erano fatti più intimi, e ormai ci conoscevamo piuttosto bene. Mi aveva raccontato a lungo del figlio, e sapevo cosa pensasse della dottrina cattolica.
Infatti, quando l’avevo vista riabbassare lo sguardo pensavo sarebbe stato per proseguire. Invece indugia ancora un momento, come indecisa, poi fruga nello zaino ed estrae una piccola foto. Non può essere che J. Mi aveva già detto che era molto bello, quanto lo si può essere a 27 anni. Proviamo a studiare un angolo dove lasciare la foto, ma sono tutti troppo angusti o precari, ed è evidente che non vuole coprire le immagini di qualcun altro.

Alla fine vedo uno spazio libero, e con una lieve pressione lascio scorrere J. fra il legno superiore destro e il braccio del crocifisso.
– Ecco, guarda, così sembra che lo abbracci…
Sì, lì andava bene.
Solo allora, alzando gli occhi mi rendo conto che siamo stati fermi davvero molto tempo: a monte si è accumulato un folto capannello di escursionisti, nel collo di bottiglia formatosi a monte di me e W. Hanno aspettato, senza dire una parola, mentre armeggiavamo per J. lì sulla croce.
A nessuno è venuto in mente di fare un solo altro passo, eppure il sentiero non è poi così stretto, sarebbe bastato scostarci un attimo, una delicata pressione delle mani, permesso scusi, posso, prego, si figuri, grazie, di nulla.

Saremo stati lì almeno dieci minuti, forse di più. Ben oltre la soglia di sopportazione dell’escursionista medio prima che inizi a palesare la propria frustrazione, eppure nessuno aveva mosso un passo.
Erano rimasti tutti lì, ad attendere folgorati sulla via di quella piccola azione. Un gesto onesto ispira un rispetto che trascende qualsiasi condizione, è una persona che in quel momento è totalmente sincera, è vera.
È uno spettacolo di estetica pura, e impossibile da interrompere.
Su un altro versante del mondo, quella sera, ero rimasto anch’io naturalmente immobile, ad attendere. Nell’impasto del Bagmati, sopra il fango, l’incenso e i bicchieri vuoti di bubble tea scorreva un sentimento simile, non camuffato: ogni candela il battello di un piccolo gesto, onesto e per questo bellissimo.

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